Vino e cibo nel Medioevo: un viaggio nei sapori antichi della tavola

L’abbinamento tra cibo e vino è una pratica che oggi consideriamo quasi rituale, raffinata e guidata da criteri precisi come struttura, intensità e territorialità. Ma questa ricerca dell’armonia sensoriale ha radici profonde, e già nel Medioevo – seppur con modalità diverse da quelle moderne – esisteva un’attenzione sorprendente al modo in cui il vino accompagnava i piatti sulle tavole, dai banchetti nobiliari ai pasti monastici.
Per capire davvero l’evoluzione di questa abitudine, dobbiamo liberarci per un momento dell’immagine del sommelier con calice in mano e immergerci in un’epoca in cui il vino era prima di tutto un alimento, spesso considerato più sicuro dell’acqua. In un tempo in cui le conoscenze igienico-sanitarie erano limitate, il vino – grazie alla sua gradazione alcolica – rappresentava una fonte relativamente sicura di liquidi. Veniva consumato quotidianamente, da tutte le classi sociali, in quantità oggi impensabili.

Ma quale vino si beveva, e con quali piatti?

Nel Medioevo il vino era quasi sempre rosso o ambrato, spesso torbido, non filtrato, e con una gradazione alcolica molto più bassa di quella attuale. I metodi di conservazione erano rudimentali: botti di legno, anfore o otri rivestiti di pece. Il risultato era un prodotto vivo, soggetto a rapide alterazioni, che veniva spesso aromatizzato con spezie, miele o erbe per migliorarne il sapore. Nacque così l’usanza del vino speziato, come l’ipocras, servito soprattutto durante i banchetti, come apertura o chiusura del pasto.
Sulle tavole nobiliari, dove il cibo era abbondante, sontuoso e coreografico, l’abbinamento tra pietanze e vino seguiva criteri che mescolavano gusto, simbolismo e medicina. La cucina medievale, infatti, era profondamente influenzata dalla teoria dei quattro umori, secondo la quale ogni alimento possedeva qualità “calde”, “fredde”, “secche” o “umide”. Anche il vino aveva una sua “temperatura” ideale: quello giovane era considerato caldo e secco, quindi adatto a bilanciare cibi “freddi e umidi” come il pesce. Al contrario, i vini più vecchi e dolci erano destinati a piatti speziati o dolci, seguendo una logica di compensazione e armonia.
Un piatto frequente sulle tavole aristocratiche era il cinghiale in agrodolce, preparato con miele, aceto e spezie esotiche. Questo tipo di pietanza, ricca e strutturata, veniva spesso accompagnata da vini rossi robusti, magari leggermente ossidati, capaci di reggere la complessità dei sapori. In alternativa, si potevano servire vini speziati a base di cannella, chiodi di garofano e zenzero, che richiamavano le stesse note aromatiche del piatto.
Nei monasteri, invece, l’approccio era più sobrio ma non per questo meno interessante. I monaci benedettini, ad esempio, coltivavano la vite e producevano il proprio vino, che accompagnava pasti semplici ma equilibrati. Zuppe di legumi, pane nero e formaggi freschi erano accompagnati da vini leggeri, spesso diluiti con acqua. I pasti erano momenti di meditazione, e il vino non era mai servito in eccesso, ma era comunque considerato parte integrante dell’alimentazione.
Anche il popolo beveva vino, seppure in forme diverse. Nelle campagne si beveva un vino più grezzo, spesso tagliato con acqua o aceto, trasformato in posca (una bevanda derivata dai Romani) oppure scaldato con erbe durante i mesi freddi. Il vino “buono” era riservato alle occasioni, magari durante le feste religiose, in abbinamento a piatti a base di carne di maiale, verdure stufate o torte rustiche.
Particolarmente interessante è il modo in cui si concludevano i banchetti medievali: non con il dolce nel senso moderno, ma con frutta secca, spezie, miele e formaggi. Il vino dolce, speziato o cotto era l’accompagnamento ideale per questi momenti. Non si cercava il contrasto, ma piuttosto la continuità aromatica, in linea con la concezione dell’equilibrio umorale.
Spostandoci nel Rinascimento, i criteri di abbinamento iniziano ad avvicinarsi a quelli odierni. Si afferma il concetto di armonia tra piatto e calice, e le corti italiane diventano luoghi di sperimentazione enogastronomica. Si sviluppano nuove tecniche di vinificazione, compaiono le prime bottiglie in vetro e si comincia a parlare di “buon vino” in senso organolettico, non solo simbolico o medico.
Oggi possiamo guardare a questo passato con curiosità e rispetto. L’arte dell’abbinamento, pur nata in un contesto profondamente diverso, ha sempre avuto al centro l’idea di creare un’esperienza completa: cibo e vino che si incontrano e si esaltano a vicenda. In fondo, anche se i palati sono cambiati, il desiderio di equilibrio e piacere è rimasto lo stesso.
Chi oggi abbina un rosso strutturato a uno stufato speziato o un bianco aromatico a una torta rustica al formaggio, forse non lo sa, ma sta seguendo le tracce di un percorso lungo secoli, fatto di sapori, intuizioni e cultura. Un brindisi a chi ci ha preceduto, con le loro culture, con il loro abbigliamento storico, e a chi continua a cercare, tra calici e piatti, la magia della giusta unione.
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